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La fortuna di Plinio dalla tarda antichità all’epoca moderna

Eliana Carrara (Università di Genova)

Nicoletta Marcelli (Università di Urbino “Carlo Bo”)

DOI: https://doi.org/10.48241/CARRARA-MARCELLI2020

Pubblicazione: Luglio 2020

 

Per agevolare il lettore in questo lungo percorso, affascinante ma accidentato, abbiamo pensato di facilitare la sua ricerca o, almeno, di stimolare la sua curiosità inserendo una bibliografia ragionata e in ordine cronologico, al fine di offrire una strumentazione agile ma non troppo stringata su un tema multiforme e impegnativo. Per ulteriori riferimenti bibliografici si rimanda inoltre allo strumento Bibliografia di questo sito.

§.1. L’autore e l’opera

(Eliana Carrara)

C. Plinius Secundus, o, come più comunemente si dice, per distinguerlo dal nipote, Plinio il Vecchio, nacque a Como (Novum Comum) tra il 23 e il 24 d. C. Giunse giovanissimo a Roma, dove iniziò il suo cursus honorum. Ufficiale di cavalleria in Germania, procuratore nella Gallia Narbonese, e poi in Africa, nella Spagna Tarraconese, nella Gallia Belgica, diviene nel 69 d. C. procuratore imperiale a Roma, un altissimo ufficio che lo metteva in continuo contatto con Vespasiano, prefetto della flotta di Miseno. Nella Prefazione della Naturalis Historia, la sua opera più nota (e l’unica a noi giunta tra le altre sue: De iaculatione equestri, De vita Pomponii Secundi, Bella Germaniae, Studiosus, Dubii sermonis libri VIII, A fine Aufidii Bassi), troviamo infatti la dedica a Tito (39-81 d.C.), figlio di Vespasiano.

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§.2. La trasmissione della Naturalis Historia di Plinio dalla tarda Antichità al Medioevo

(Eliana Carrara)

La trasmissione della Naturalis Historia è affidata, per quello che riguarda la tradizione più antica, a pochi manoscritti conservati in porzioni frammentarie. Essi sono i seguenti:

  • M = ms. 3.1 (25.2.36; xxv.a.3) della Stiftsbibliothek di St. Paul im Lavanttal (Carinzia), del V secolo d.C.;
  • N = ms. Sessoriano 55 della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, del V secolo d.C.;
  • O = ms. 1a della Österreichische Nationalbibliothek di Vienna, della metà del V secolo d.C.;
  • P = ms. Lat. 9378 (la sola carta 26) della Bibliothèque Nationale di Parigi, della metà del VI secolo d.C.;
  • Pal. Chat.= che corrisponde al ms. S 24 (28) della Bibliothèque Municipale di Autun 24 insieme con il ms. Nouv. Acq. Lat. 1629 della Bibliothèque Nationale di Parigi, della metà del V secolo d.C..

In due casi (mss. O e P) essi sono formati da pochissimi fogli di pergamena riutilizzati come materiale per rilegature; negli altri si tratta di palinsesti, ossia di codici scritti due volte dal momento che il supporto scrittorio (generalmente pergamena) veniva eraso per potervi poi scrivervi nuovamente. La porzione più ampia dell’opera di Plinio (libri XI-XV) ci è conservata dal codice palinsesto conosciuto con il nome di Codex Moneus (M), dal nome dello studioso tedesco Franz Josef Mone (1796-1871), conservato nella Stiftsbibliothek di St. Paul im Lavanttal in Carinzia, trattato con reagente chimico per far emergere il testo dell’autore latino.

La tradizione successiva, a partire dall’età altomedievale, è stata divisa dai filologi convenzionalmente in due grandi blocchi in base alla datazione:

  1. manoscritti vetustiores;
  2. manoscritti recentiores.

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§.2.1. I lettori tardoantichi e altomedievali di Plinio

La fortuna dell’opera di Plinio non rimase ancorata ai soli codici che, in forme sempre più lussuose a partire dal tardo Medioevo e con un corredo di immagini che divenne via via ancor più ricco e accurato in pieno Umanesimo, ne tramandarono il testo.

Conobbero e citarono Plinio molti scrittori della tarda Antichità e dell’Alto Medioevo, che dunque contribuirono a diffonderne la fortuna, a patto però di selezioni precise (e mirate) e di un progressivo impoverimento della massa sterminata di notizie trasmesse dai 37 libri della Naturalis Historia.

Così accade per i fortunatissimi Collectanea rerum memorabilium di Solino, vissuto nel III secolo, che centonano in forme rapide e sommarie tutti gli elementi fantastici e meravigliosi dei libri iniziali (III-XIII) nonché del XXXVII dell’opera di Plinio [Fig. 4].

Nella forma di un repertorio alfabetico, organizzato per materie si snodano le Etymologiae di Isidoro di Siviglia (vissuto fra VI e VII secolo), che tramandano notizie sul mondo vegetale, animale e minerale desunte da Plinio (e riversate dall’arcivescovo spagnolo nei libri XV de aedificiis et agris e nel XVI de lapidibus et metallis del proprio testo).

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§.2.2. I lettori di Plinio nel Trecento

Sullo scorcio del Medioevo, nella cosiddetta età preumanistica, i libri della Naturalis Historia sono presenti non più soltanto negli scriptoria monastici, cui dobbiamo la trasmissione di molti degli autori classici giunti fino a noi, ma figurano pure negli studioli dei più importanti letterati vissuti nel XIV secolo.

Sappiamo con certezza, grazie ad un appunto redatto sul margine del manoscritto della Bibliothèque Nationale di Parigi, quando Petrarca entrò in possesso di questo testimone frammentario e scorretto dell’opera pliniana: il 6 luglio 1350, mentre si trovava a Mantova [Fig. 7].

L’interesse per Plinio da parte di Petrarca si sarebbe reso tangibile e palese quando venne concretizzato (solo verso il 1366 e dopo molti interventi di limatura e di revisione) il progetto, iniziato nel 1354, del De remediis utriusque fortunae, diviso in due volumi, composti a propria volta da 122 e da 131 dialoghi in cui agiscono come protagonisti alcune figure allegoriche, la Ragione (Ratio), la Gioia (Gaudium), la Speranza (Spes), il Dolore (Dolor) e il Timore (Metus).

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§.3. Tradizione manoscritta e circolazione del testo pliniano nel Quattrocento

(Nicoletta Marcelli)

È stato da più parti sottolineato come l’opera di Plinio non sia mai andata perduta né, di conseguenza, sia mai stata riscoperta, come accaduto a molti altri classici dell’antichità agli albori dell’Umanesimo; tuttavia, non sarebbe corretto immaginare la sua trasmissione attraverso i secoli, ivi compreso il Quattrocento, come una linea continua e statica. Piuttosto sembra vero il contrario, per cui la presenza costante della Naturalis Historia nell’orizzonte culturale dell’Europa del Basso Medioevo contrasta con l’impressionante varietà di utilizzo, di fruizione e perfino di valutazione cui fu sottoposta.

Alcune caratteristiche dell’opera ne hanno condizionato sia la ricezione attraverso i secoli sia la sua trasmissione: ad esempio, il fatto più rilevante è che l’opera non fu concepita per essere insegnata nelle scuole, e di fatto non vi entrò mai; in secondo luogo, la divisione in blocchi tematici coerenti ne ha permesso una fruizione per excerpta sulla base degli interessi dei lettori e delle tendenze culturali delle varie epoche. A tutto ciò si aggiunge la oggettiva difficoltà del testo che indusse frequentemente i copisti in errore, al punto che la situazione testuale della Naturalis Historia a tutt’oggi risulta fortemente compromessa da mende e lacune perpetuatesi nel corso dei secoli.

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§.3.1. Le imprese editoriali del secondo Quattrocento: il testo di Plinio come «laboratorio filologico»

Com’è noto, la princeps pliniana vide la luce a Venezia nel 1469 (ISTC ip00786000) per i tipi di Giovanni da Spira: sebbene non vi sia alcuna indicazione circa la responsabilità editoriale o la provenienza del testo, è stato appurato che esso deriva dal ms. parigino BNF, Lat. 6805. L’anno successivo a Roma uscì la prima vera edizione critica del testo pliniano curata da Giovanni Andrea Bussi, vescovo di Aleria, che si era avvalso delle competenze di Teodoro Gaza in materia di greco (Sweynheym e Pannartz, ISTC ip00787000, con ristampa veneziana di Nicolaus Jenson nel 1472 ISTC ip00788000).

Le varie fasi della constitutio textus operata dagli editori è ad oggi ricostruita grazie alla sopravvivenza di due dei tre codici utilizzati per la preparazione dell’edizione. Sfortunatamente il pionieristico lavoro all’indomani della sua uscita suscitò un nugolo di critiche che attaccavano la validità delle scelte filologiche compiute, soprattuto relativamente ai numerosi punti in cui il testo pliniano era mendoso ed era stato sottoposto ad interventi emendatori. Uno dei protagonisti di queste polemiche fu, oltre a Giorgio Merula che per primo criticò pesantemente l’operato degli editori (Emendationes in Virgilium et Plinium, 1471), Niccolò Perotti, il quale nel suo violento attacco giunse perfino – forse non a torto – a invocare l’istituzione di una forma di controllo sull’editoria dei classici a Roma.

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§.3.2. L’antiquaria e la trattatistica d’arte di fronte al testo di Plinio il Vecchio

Ciriaco di Filippo de’ Pizzicolli, detto Ciriaco d’Ancona, è stato il primo italiano del Rinascimento a collegare alcune rovine presenti nei paesi del bacino del Mediterraneo con i passi pliniani. Nelle lettere e negli appunti scritti durante i suoi viaggi identificò alcuni edifici come le meraviglie orientali menzionate nel libro XXXVI della Naturalis Historia e contribuì a contestualizzarle fisicamente, determinandone le dimensioni e abbozzandone le facciate, cosa che sarebbe stata impossibile per i suoi contemporanei che non avevano visitato i siti stessi. Mentre autori della sua stessa generazione, come Alberti e Filarete, fusero diversi passaggi dalla Naturalis Historia, creando edifici compositi per rievocare la magnificenza dell’antichità, Ciriaco, proprio perché ebbe modo di visitare gli edifici descritti da Plinio, ebbe un approccio molto più concreto e visivo al testo antico. Al contrario di altri umanisti che, come lui, viaggiarono verso est e che furono interessati quasi esclusivamente a collezionare manoscritti, Ciriaco fu invece affascinato dagli aspetti architettonici dell’antichità e si dedicò alla loro registrazione su carta sotto forma di descrizione o di disegni. Ciò che lo distingue maggiormente dai contemporanei è l’ampio ricorso alle fonti antiche sulla topografia e sull’architettura del vicino Oriente.

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§.3.3. Il volgarizzamento di Cristoforo Landino: tra politica culturale e avanguardia lessicografica

L’imponente opera di traduzione intrapresa da Cristoforo Landino ebbe una durata sorprendentemente breve, giacché iniziò verosimilmente nella primavera del 1474 ed era certamente terminata il 20 agosto del 1475, come si evince dalla lettera di Niccolò Bendedei, ambasciatore di Ercole d’Este a Firenze, inviata proprio in quella data in patria, in cui si menziona l’opera di Landino come già conclusa. Il volgarizzamento fu commissionato all’umanista di Pratovecchio dal re Ferdinando d’Aragona che intendeva inviarlo in dono a Carlo Temerario, duca di Borgogna, in occasione del fidanzamento tra il proprio figlio, Federico d’Aragona, e Maria di Borgogna, erede unica di Carlo. Questa committenza di alto rango è documentata dai due manoscritti di dedica oggi conservati a El Escorial (Real Biblioteca de San Lorenzo, h I 2 [libri 19-37] e h I 3 [libri 1-18]), nei quali sono state rintracciate correzioni autografe dell’autore.

L’anno successivo (1476) l’opera fu stampata in 1000 esemplari dal tipografo veneziano Nicholas Jenson, grazie all’intervento di Girolamo Strozzi, il quale pagò al Landino 50 fiorini d’oro, ma va da sé che l’impresa dello Strozzi da sola non sarebbe stata sufficiente a supportare finanziariamente un’opera così imponente, anche per la tiratura di copie previste, per cui la dedica a Ferrante d’Aragona dovette sicuramente avere anche uno scopo economico che andava al di là del compenso per l’autore del volgarizzamento e per l’allestimento dei codici di dedica.

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§.4. Il Cinquecento. La fortuna cinquecentesca della Naturalis Historia

(Eliana Carrara)

Nel gennaio del 1506, in una vigna sul colle Oppio, nei pressi del Colosseo, venne ritrovato il gruppo scultoreo del Laocoonte, di cui narra diffusamente Plinio nel libro XXXVI (capitolo 38) della Naturalis Historia, che ne ricordava la sua collocazione all’interno del palazzo dell’imperatore Tito. La riscoperta della celeberrima opera antica conferì un’ulteriore, e anzi ormai un’indiscutibile, autorevolezza al testo dello scrittore latino e determinò un accrescersi della sua già fiorente fortuna e diffusione presso il colto mondo dei letterati e degli umanisti e, a maggior ragione, anche presso gli artisti, che poterono consultare facilmente la fonte classica in virtù della vasta disponibilità di edizioni della Naturalis Historia in volgare.

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§.5. Il Seicento. Per un abbozzo della fortuna del testo pliniano nel XVII secolo: le Vite de’ pittori antichi di Carlo Roberto Dati

(Eliana Carrara)

Tracciato un resoconto necessariamente sommario delle numerose attestazioni della fortuna pliniana nel corso del Cinquecento, è possibile riscontrare una sua persistenza senza soluzione di continuità pure nel secolo successivo, il XVII. Un interessante caso è costituito dall’opera di Carlo Roberto Dati, pubblicata a Firenze nel 1667 con la dedica al re di Francia, Luigi XIV, che aveva concesso una pensione annua al suo autore.

Dati (1619-1676), nato da nobile famiglia, ebbe modo di compiere sia approfonditi studi di carattere letterario, tanto da divenire un perito conoscitore delle lingue classiche, sia di carattere scientifico, con maestri come Galileo Galilei e Evangelista Torricelli. Su indicazione del padre, si dedicò anche alla pratica dell’arte del battiloro, al fine di procurarsi un bagaglio di conoscenze in ambito artigiano e commerciale. Ma fu, ovviamente, la sua preparazione letteraria che gli permise di accedere alle più importanti accademie fiorentine, e in particolare in quella della Crusca, ove – con il nome accademico di Smarrito – lavorò con impegno alla terza edizione del Vocabolario, apparsa poi nel 1691, e dove poté acquisire quella sensibilità per la storia del lessico artistico che trovò impegnato in prima persona in quegli stessi anni una figura del rango di Filippo Baldinucci, che nel 1681 diede alle stampe il Vocabolario toscano dell’arte del disegno.

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