La Storia dell’arte nel sistema espressivo e simbolico della “Naturalis Historia”

Sandra Citroni Marchetti – Università degli Studi di Firenze

Published: february 2022

If you are interested in reading the complete contribution, see S. Citroni Marchetti, La storia dell’arte nel sistema espressivo e simbolico della “Naturalis Historia”. In G. Adornato – E. Falaschi – A. Poggio (eds.), Περὶ γραφικῆς. Pittori, tecniche, trattati, contesti tra testimonianze e ricezione, Milano: LED 2019, 233 sgg. (DOI: https://dx.doi.org/10.7359/897-2019-citr)

§.1.La figura intellettuale di Plinio

 

In un suo scritto tardo C.G. Jung ricordava come inizialmente non riuscisse a comprendere le associazioni di idee che osservava nei suoi pazienti: di ciò egli faceva responsabile la formazione universitaria da lui ricevuta, che era attenta all’anatomia cerebrale ma non si occupava della psiche umana. Per stigmatizzare questo atteggiamento della psichiatria accademica Jung fa un paragone: esso era “proficuo come l’atteggiamento di uno studioso di mineralogia verso la cattedrale di Chartres” (Jung 1993, 66). Da una parte, dunque, lo studioso di mineralogia, e dall’altra la cattedrale: cioè il monumento, l’opera d’arte. Questa situazione che Jung prende a paradigma di una negativa separatezza e incomprensione è, nei suoi termini essenziali, la medesima che ci presentano i libri finali della Naturalis Historia: dove un autore si pone di fronte alle opere d’arte in quanto studioso di mineralogia.

Potremmo negare che vi siano difficoltà nel trattare di opere d’arte muovendo dai materiali che le compongono. Ed è anche possibile fare di questa scelta un punto di forza: per L. Barkan in Unearthing the Past, proprio il definire gli oggetti dell’arte secondo le gerarchie del mondo naturale rende possibile a Plinio fare una storia dell’arte strutturata come sistema (Barkan 1999, 67; cfr. Rouveret 1981, 9; Naas 1996 e 2006). Oppure potremmo mettere in dubbio che la qualifica di studioso di mineralogia si attagli a Plinio. Non si intende, in questo caso, squalificare Plinio dal punto di vista della competenza in materia, che gli va anzi riconosciuta (Healy 1999).

Ma si intende mettere in discussione la legittimità del procedimento per cui, muovendo dalla competenza che si esplica nei diversi segmenti della Naturalis Historia, si pretende di risalire alla figura di un erudito capace di cimentarsi in più campi appunto perché la sua mente sarebbe programmata a segmentarsi come i vari settori dell’erudizione gli richiedono.

La figura a cui riportare le diverse competenze esercitate nella Naturalis Historia è piuttosto da individuare in quella di un autore responsabile dell’opera nel suo insieme. E ciò sembrerebbe ovvio, se non si pensasse che tale consapevolezza è stata acquisita solo in tempi recenti, e se non si avesse anche presente il fatto che in tempi ancora più recenti essa è stata di nuovo messa in dubbio. Sugli studi pliniani dirò brevissimamente qualcosa. Anticipo però che la mia posizione è di valorizzare, anche al di là della figura dell’autore dell’opera, la dimensione di Plinio come intellettuale, cioè come personaggio che è responsabile così della Naturalis Historia come di tutte le altre opere che scrive: opere perdute, che erano numerose ed esprimevano altre importanti competenze: storiografia, tattica militare, grammatica, retorica. Egli ne è unitariamente responsabile in base alla coscienza che ha della propria posizione sia nel contesto sociale e politico in cui vive sia nei confronti della tradizione culturale in cui si situa: una tradizione culturale a sua volta da intendere in senso ampio e non limitatamente agli ambiti di cui direttamente si occupa ciascuna sua specifica opera. Nel modo poi di porsi nei confronti dell’arte, direi che ha una parte notevole anche la sua individuale sensibilità.

Per ricordare come si è affermata, in anni che possiamo ancora chiamare recenti, la figura di un autore responsabile della Naturalis Historia, cito il saggio di G.B. Conte (1982), il mio libro sul moralismo pliniano (1991), il libro di M. Beagon (1992), quello di V. Naas (2002), quello di J. Isager (1991) sulla storia dell’arte nell’insieme dell’opera e quello di S. Carey (2003), che ha studiato la tematica artistica considerandola inserita in un progetto autoriale intimamente connesso con l’ideologia imperialistica romana. T. Murphy, che in un importante lavoro ha evidenziato ulteriormente il nesso fra la Naturalis Historia e l’imperialismo romano, ha considerato l’opera come un “cultural artefact” dell’impero, e ha messo per questa via in secondo piano la figura dell’autore: la Naturalis Historia – egli dice – “was less written than it was assembled” (Murphy 2004, 9). Condividendo questa visione, che riconosce l’intrinseco legame tra la composizione della Naturalis Historia e la contemporanea ideologia imperiale, A. Doody (2010) ha tuttavia valorizzato il carattere letterario dell’opera: i singoli fatti che essa offre sono organizzati in un contesto narrativo da un autore consapevole (e questa presenza autoriale, che struttura l’opera come un insieme, è esemplificata da Doody anche in riferimento alla storia dell’arte). Una valorizzazione particolarmente accentuata dell’aspetto letterario della Naturalis Historia è stata fatta anche da E. Lao (2008).

Personalmente ho cercato, nei miei ultimi lavori sulla Naturalis Historia (Citroni Marchetti 2011 e 2016), di indagare il tessuto del discorso pliniano per rintracciarvi la presenza di reminiscenze, influssi, suggestioni culturali: un approccio che sembrerebbe poter indebolire la figura autonoma di un autore. Ma in realtà le influenze per così dire esterne che mi è parso di poter identificare risultano unificate da una personalità che, a mio giudizio, può addirittura dirsi culturalmente e letterariamente sofisticata. E se mi è sembrato di poter segnalare (come qui ancora farò) l’importanza di Cicerone come modello per la personalità pliniana, è anche questo un modello intellettuale in senso comprensivo, a cui Plinio si riferiva sia dal punto di vista dell’impegno pubblico che della cultura, e anche della personale sensibilità.

§.2.Il modello ciceroniano

Ritenendo dunque che sia possibile ricondurre le opinioni che Plinio esprime sulle diverse forme dell’arte alla sua complessiva dimensione culturale e intellettuale, proveremo a muovere da un testo ciceroniano notissimo, la II Filippica: un testo che Plinio, avvocato e autore di un’opera di retorica, non poteva non conoscere bene. Nel passo che qui proponiamo, Cicerone stabilisce, confrontandosi con Antonio, la sua posizione rispetto alla cultura: egli non è mai venuto meno agli obblighi civili e tuttavia con opere di ogni genere, scritte nei ritagli di tempo, ha fatto sì che le sue veglie e i suoi studi portassero utilità ai giovani e lode al nome di Roma (Cic. Phil. 2.20):

Nec vero tibi de versibus plura respondebo: tantum dicam breviter, te neque illos neque ullas omnino litteras nosse; me nec rei publicae nec amicis umquam defuisse, et tamen omni genere monumentorum meorum perfecisse operis subsicivis ut meae vigiliae meaeque litterae et iuventuti utilitatis et nomini Romano laudis aliquid adferrent.

Ma riguardo ai miei versi non ti risponderò più a lungo: dirò solo brevemente questo, che tu non ti intendi né dei versi né in generale della letteratura; io invece, senza mai venir meno né allo stato né ai miei amici ho fatto tuttavia sì, con le mie opere letterarie di ogni genere, realizzate nei ritagli di tempo, che le mie veglie e i miei studi portassero utilità ai giovani e lode al nome di Roma.

Sebbene la presenza del termine subsicivus in questo passo non sia sicura, in quanto le parole operis subsicivis sono presenti solo in un ramo della tradizione manoscritta, subsicivus è comunque un termine che Cicerone utilizzava più volte, anche in riferimento al proprio programma di vita e di lavoro: Leg. 1.9: subsiciva quaedam tempora incurrunt, quae ego perire non patior; ibid. 13: his subsicivis, ut ais, temporibus; De or. 2.364: quae ego sero, quae cursim arripui, quae subsicivis operis, ut aiunt (con la medesima espressione, subsicivis operis, che si trova in alcuni manoscritti della Filippica II). Già di per sé il termine doveva avere per Plinio una risonanza ciceroniana.

Vediamo quindi un passo della prefazione pliniana che contiene uno dei capisaldi ideologici della Naturalis Historia. Come Cicerone, Plinio afferma la utilitas delle proprie opere (utilitatem iuvandi). Come Cicerone, Plinio vuole che le opere letterarie contribuiscano alla gloria del nome di Roma (Romani nominis gloriae). Cicerone faceva riferimento alle proprie veglie e Plinio riduce gli studi alle ore notturne, giungendo a sostenere che solo la veglia è vita (vita vigilia est). Entrambi affermano (con il termine subsicivus) di aver usato per gli studi solo i ritagli di tempo (Plin. NH praef. 16-18):

Equidem ita sentio, peculiarem in studiis causam eorum esse, qui difficultatibus victis utilitatem iuvandi praetulerint gratiae placendi, idque iam in aliis et operibus ipse feci et profiteor mirari me T. Livium, auctorem celeberrimum, in historiarum suarum, quas repetit ab origine urbis, quodam volumine sic orsum: “iam sibi satis gloriae quaesitum, et potuisse se desidere, ni animus inquies pasceretur opere”. Profecto enim populi gentium victoris et Romani nominis gloriae, non suae, composuisse illa decuit. Maius meritum esset operis amore, non animi causa, perseverasse et hoc populo Romano praestitisse, non sibi […]. Homines enim sumus et occupati officiis subsicivisque tempori- bus ista curamus, id est nocturnis […]. Profecto enim vita vigilia est.

Quanto a me, ritengo che in letteratura un posto particolare spetti a chi, superando le difficoltà, antepone il merito di scrivere un’opera utile al vantaggio di piacere ai lettori. A questo criterio io stesso mi sono attenuto già in altre mie opere, e confesso di essere stupito che un autore celeberrimo come Tito Livio cominci con queste parole un libro delle sue Storie, che si rifanno all’origine di Roma: “Mi sono già acquistato gloria a sufficienza e avrei potuto anche concedermi riposo, se il mio animo irrequieto non trovasse alimento nell’attività”. Sarebbe stato certamente meglio se Livio avesse composto i suoi libri per glorificare il popolo vincitore di tutte le genti e il nome di Roma, non se stesso […]. Sono un uomo, sono affaccendato nelle occupazioni di ogni giorno; mi dedico a opere come questa nei ritagli di tempo, vale a dire di notte […]. Si può dire infatti con certezza che vivere è vegliare.

Dopo aver evidenziato l’affinità tra passi di Cicerone e di Plinio che contengono una riflessione sull’uomo di cultura, consideriamo ora due passi in cui si parla di arti figurative.

Nell’orazione in difesa del poeta Archia, Cicerone stabilisce la superiorità della poesia su scultura e pittura (ma cf. Leen 1991 sull’apprezzamento di Cicerone verso l’arte greca). Solo la poesia è veramente capace di celebrare le virtù dei grandi personaggi. Quello che i grandi uomini lasciano alla posterità grazie alle statue e ai ritratti non è infatti la raffigurazione degli animi ma solo dei corpi (Cic. Arch. 30):

An statuas et imagines, non animorum simulacra, sed corporum, studiose multi summi homines reliquerunt; consiliorum relinquere ac virtutum nostrarum effigiem nonne multo malle debemus summis ingeniis expressam et politam? Ego vero omnia quae gerebam iam tum in gerendo spargere me ac disseminare arbitrabar in orbis terrae memoriam sempiternam.

Molti grandissimi uomini hanno voluto lasciare statue e ritratti, raffigurazioni non degli animi, ma dei corpi; e noi non dobbiamo di molto preferire di lasciare l’immagine della nostra attività politica e delle nostre qualità, modellata e rifinita dagli ingegni più eminenti? Quanto a me, tutte le mie azioni, nel momento stesso in cui le compivo, immaginavo di spargerle e disseminarle per tutto il mondo, a sempiterna memoria.

I medesimi termini si ritrovano in un passo famoso in cui Plinio lamenta il venir meno della ritrattistica, dicendo che poiché non ci sono “immagini degli animi”, si trascurano anche le “immagini dei corpi” (Plin. NH 35.4-5):

Imaginum quidem pictura, qua maxime similes in aevum propagabantur figurae, in totum exolevit […] materiam conspici malunt omnes quam se nosci […] honorem non nisi in pretio ducentes […] itaque nullius effigie vivente imagines pecuniae, non suas, relincunt […] se ne viventes quidem nosci volunt. Ita est profecto: artes desidia perdidit, et quoniam animorum imagines non sunt, ne<g>leguntur etiam corporum.

L’arte del ritrarre, quell’arte che perpetuava nel tempo immagini della massima somiglianza, è stata ormai del tutto abbandonata […] tutti tengon più a un materiale vistoso, che ad essere riconosciuti […] solo da quel che costa caro si sentono onorati […]. Così, non c’è persona di cui sopravvivano le fattezze, perché non il proprio ritratto, bensì quello del loro denaro lasciano dietro di sé costoro […] non tengono a far riconoscere se stessi neanche da vivi. È così, purtroppo: la mediocrità ha distrutto le arti, e visto che non c’è traccia di grandezza d’animo, non ci si preoccupa di lasciar traccia neanche delle proprie fattezze fisiche.

Anche l’espressione animorum imagines di Plinio rimanda a un’assenza, come già animorum simulacra di Cicerone: ma in senso molto diverso. Per Cicerone non ci sono “immagini degli animi” nelle arti figurative perché queste arti non sono in grado di riprodurre la grandezza d’animo, effettiva e reale, di chi vuole essere celebrato. Plinio, dicendo che non ci sono “immagini degli animi”, nega invece l’esistenza della grandezza d’animo: al giorno d’oggi non ce ne è più traccia, non ce ne è più segno. E poiché appunto non ci sono “immagini degli animi”, cioè animi degni di essere fissati nelle immagini, vengono meno anche le immagini dei corpi. Plinio riusa dunque i termini ciceroniani ma per negare l’assunto di Cicerone. Egli nega il desiderio di fama dei grandi uomini, che per Cicerone motivava sia la poesia celebrativa che – pur nella loro minore efficacia – le statue e i ritratti, e nega l’esistenza stessa dei grandi uomini.

Nel tessuto espressivo della Naturalis Historia, e in passi di particolare consistenza ideologica, sono dunque presenti elementi di origine ciceroniana. Plinio può concordare con il precedente ciceroniano o porsi in dialettica con esso, come in quest’ultimo caso. Le posizioni ciceroniane, con la terminologia che le sosteneva, dovevano godere di ampia diffusione, ma si può ritenere che Plinio avesse piena consapevolezza di star usando termini di origine ciceroniana e di star prendendo posizione nei confronti di Cicerone. Talvolta un singolo termine funziona come spia di un legame diretto. La polemica di Plinio contro i falsi intenditori dei bronzi corinzi aveva un precedente notissimo nell’accusa di Cicerone contro Verre (Cic. Verr. 2.4.98):

Tu videlicet solus vasis Corinthiis delectaris, tu illius aeris temperationem, tu operum liniamenta sollertissime perspicis! Haec Scipio ille non intellegebat, homo doctissimus atque humanissimus: tu sine ulla bona arte, sine humanitate, sine ingenio, sine litteris, intellegis et iudicas! Vide ne ille non solum temperantia sed etiam intellegentia te atque istos qui se elegantis dici volunt vicerit. Nam quia quam pulchra essent intellegebat, idcirco existimabat ea non ad hominum luxuriem, sed ad ornatum fanorum atque oppidorum esse facta, ut posteris nostris monumenta religiosa esse videantur.

Ma certo, tu solo sai gustare la bellezza dei vasi corinzi, tu solo sai riconoscere con la massima abilità la tempra di quel bronzo e la finezza del disegno! Scipione, invece, di queste cose non si intendeva, pur essendo uomo tanto colto e raffinato. E tu, senza alcuna buona qualità, senza cultura, senza talento naturale, senza formazione letteraria, tu te ne intendi, tu sai valutare! Vedi un po’ se quel grande uomo non abbia superato te e codesti nobili che pretendono di passare per persone raffinate, non solo per la sua moderazione, ma anche per la sua competenza: egli, proprio perché comprendeva quanto grande fosse la bellezza di quegli oggetti, riteneva che essi non fossero fatti per il lusso degli uomini, ma per l’ornamento dei santuari e delle città, per poter essere agli occhi dei nostri discendenti delle testimonianze di valore religioso.

Plinio cita i due personaggi, Cicerone e Verre, scegliendo però di non privilegiare il processo ma di informare su cosa capitò a Verre in seguito. Al processo rimanda (oltre all’accusa di non intellegere: termine che ha una martellante presenza nel contesto ciceroniano) l’espressione dispregiativa isti elegantiores che ricalca istos qui se elegantis dici volunt (Plin. NH 34.6-7):

Ex illa autem antiqua gloria Corinthium maxime laudatur. Hoc casus miscuit Corintho, cum caperetur, incensa, mireque circa id multorum adfectatio furit, quippe cum tradatur non alia de causa Verrem, quem M. Cicero damnaverat, proscriptum cum eo ab Antonio, quoniam Corinthiis cessurum se ei negavisset. Ac mihi maior pars eorum simulare eam scientiam videtur ad segregandos sese a ceteris magis quam intellegere aliquid ibi suptilius […]. Sunt ergo vasa tantum Corinthia, quae isti elegantiores modo ad esculenta transferunt, modo in lucernas aut trulleos nullo munditiarum dispectu.

Tra le antiche leghe bronzee famose quella Corinzia è la più rinomata. Il caso determinò tale lega in occasione della presa e dell’incendio di Corinto, ed è incredibile quanto, attorno a questi oggetti, si scateni l’ambizione di molti, se è vero quel che si tramanda a proposito di Verre, che sarebbe stato proscritto da Antonio – insieme a Cicerone, il quale lo aveva precedentemente fatto condannare – per nessun altro motivo se non per il fatto che aveva rifiutato di cedergli dei bronzi Corinzi. A me pare, tuttavia, che la maggior parte di costoro simulino di conoscere l’arte del bronzo per distinguersi dalla folla più di quanto non comprendano in essa qualcosa di più […]. Dunque sono vasi Corinzi solo quelli che questi intenditori raffinati usano ora come piatti, ora come lucerne o catini, senza alcuna considerazione del loro valore artistico.

Abbiamo detto che Cicerone nella Pro Archia confinava le arti figurative alla rappresentazione dei corpi mentre elogiava la poesia in quanto capace di celebrare la virtus. Dall’insieme della Pro Archia si può vedere che l’elemento che collega virtus e poesia celebrativa è la gloria. I grandi uomini sono motivati nelle loro azioni dalla gloria e aspirano a diffonderla e tramandarla. A ciò risponde il poeta, il quale a sua volta vuol conseguire la “gloria dell’ingegno”: ingeni gloria (Cic. Arch. 4; 10; 19). Plinio usa spesso il termine gloria in riferimento all’arte, ma in senso per così dire professionale, per indicare l’eccellenza e il successo di singoli artisti. Per affermare la capacità della pittura di conferire un prestigio che essa stessa possiede usa un’altra terminologia: la pittura è (anzi, un tempo era) un’arte nobilis e capace di nobilitare (Plin. NH 35.2):

Dicemus quae restant de pictura, arte quondam nobili – tunc cum expeteretur regibus populisque – et alios nobilitante, quos esset dignata posteris tradere.

Diremo quanto ancora resta intorno alla pittura, arte un tempo nobile – quando la ricercavano re e popoli – e capace di nobilitare quelli che si era degnata di tramandare ai posteri.

Questa definizione, che attraverso la ripetizione del medesimo vocabolo attribuisce alla pittura sia un’intima positività sia la capacità di farne parte ad altri, è affine all’espressione che il poeta Nevio aveva fatto pronunciare al personaggio di Ettore, il quale si compiaceva di “essere lodato da un uomo lodato”: laudari a laudato viro. Questa espressione compare più volte in Cicerone, ed è presente nella lettera con cui egli chiedeva allo storico Lucceio uno scritto celebrativo (Cic. Fam. 5.12.6-7):

Neque autem ego sum ita demens ut me sempiternae gloriae per eum commendari velim qui non ipse quoque in me commendando propriam ingeni gloriam consequatur. Neque enim Alexander ille gratiae causa ab Apelle potissimum pingi et a Lysippo fingi volebat, sed quod illorum artem cum ipsis tum etiam sibi gloriae fore putabat. Atque illi artifices corporis simulacra ignotis nota faciebant, quae vel si nulla sint, nihilo sint tamen obscuriores clari viri […]. Placet enim Hector ille mihi Naevianus, qui non tantum “laudari” se laetatur sed addit etiam “a laudato viro”.

E io non sono così pazzo da voler essere consegnato alla gloria eterna da uno scrittore che non sia in grado di ottenere lui stesso, mentre elogia me, la gloria personale del suo ingegno. Il grande Alessandro voleva che fosse Apelle a preferenza di ogni altro a dipingere il suo ritratto e Lisippo a scolpirlo non certo per favorirli, ma perché riteneva che la loro arte sarebbe stata fonte di gloria sia per loro sia per sé. E quegli artisti rendevano note a chi non le conosceva le immagini fisiche, ma se anche queste immagini non esistessero, gli uomini illustri non sarebbero per nulla meno famosi […]. Mi piace infatti quell’Ettore di Nevio, che non si rallegra soltanto “di essere lodato”, ma aggiunge anche “da un uomo degno di lode”.

Come nella Pro Archia, anche qui le arti figurative sono solo limitatamente apprezzate: gli artisti di Alessandro conferivano gloria a sé e a lui, ma essi rendevano note agli sconosciuti soltanto le immagini del corpo: corporis simulacra ignotis nota faciebant. Ritroviamo qui la stessa terminologia che avevamo visto inizialmente.

Un nucleo del pensiero di Cicerone, che riguarda la virtù individuale e la sua celebrazione, con un giudizio sul valore delle arti, ha lasciato dunque una traccia nella trama del discorso pliniano. Ciò rientra nella più generale influenza che tematiche ciceroniane di carattere etico e sociale hanno sulla Naturalis Historia (abbiamo visto la preoccupazione per la utilitas dell’opera). Ma Plinio adegua a sé il pensiero di Cicerone senza lasciarsene assorbire. Riguardo all’arte, Plinio sa bene che essa sfugge alla correttezza ideologica, che non si lascia rinchiudere in un rapporto stabile con la gloria e la virtù. Se le arti figurative conquistano legittimità rendendo noti i tratti fisici degli uomini meritevoli, il loro potere è anche, o soprattutto, altrove.

Plinio racconta che da secoli nel senato di Roma si contempla l’immagine di un padre e figlio assolutamente sconosciuti: ignobilissimi. In questa autonoma capacità di imporsi sui suoi fruitori Plinio riconosce il potere dell’arte, anzi, l’infinito potere dell’arte (Plin. NH 35.28):

Alterius tabulae admiratio est puberem filium seni patri similem esse aetatis salva differentia, supervolante aquila draconem complexa; Philochares hoc suum opus esse testatus est, inmensa, vel unam si tantum hanc tabulam aliquis aestimet, potentia artis, cum propter Philocharen ignobilissimos alioqui Glaucionem filiumque eius Aristippum senatus populi Romani tot saeculis spectet!

Nell’altro quadro l’ammirazione va tutta alla somiglianza tra un figlio adolescente e un vecchio padre, fatta salva solo la differenza di età; su di loro vola un’aquila che tiene stretto un serpente; Filocare ha provato con la firma che l’opera è sua. Davvero straordinaria è la potenza dell’arte, unica – direi anzi se ci si limita a valutare solo questo quadro, dal momento che, grazie a Filocare il senato del popolo romano guarda da tanti secoli Glaucone e suo figlio Aristippo, uomini di per sé di nessuna importanza!

Proveremo tra poco a vedere come Plinio stesso, per la sua personale sensibilità, fosse accessibile al potere dell’arte. Ma soffermiamoci ancora sugli aspetti di legittimità e correttezza nel rapporto, posto nella Naturalis Historia, fra società romana e arti figurative. L’elogio pliniano dell’editto di Agrippa de tabulis signisque publicandis e il connesso biasimo per l’uso di “esiliare” le opere d’arte nelle ville (NH 35.26) discendono in qualche misura dalla polemica di Cicerone contro Verre e tutti i ricchi romani che nascondevano nelle ville i tesori dell’arte (cfr. Cic. Tusc. 5.102; sulla funzione delle collezioni d’arte sia pubbliche che private a Roma in Plinio: Gualandi 1982; Rouveret 1987; Bounia 2004, 173-220; Isager 2006; su Plinio e le opere d’arte a Roma: Poggio 2019). Ma per Plinio anche la pubblica esposizione delle opere d’arte in Roma non è esente da criticità, poiché la quantità delle opere e le intense attività cittadine impediscono la tranquillità (otium) necessaria alla contemplazione (Plin. NH 36.27):

Romae quidem multitudo operum et iam obliteratio ac magis officiorum negotiorumque acervi omnes a contemplatione tamen abducunt, quoniam otiosorum et in magno loci silentio talis admiratio est.

A Roma tuttavia il gran numero di opere d’arte e l’oblio che oramai le oscura, e ancora di più l’accumularsi dei più svariati impegni ed affari, finiscono per stornare dalla contemplazione, perché per ammirare opere come queste bisogna essere tranquilli, in luoghi silenziosi.

In questo senso potrebbe apparire esemplare Verre, che contemplava in tranquillità gli oggetti d’arte: contemplari unum quidque otiose et considerare coepit (Cic. Verr. 2.3.33). Ma Verre si dedicava a tale contemplazione in una villa che intendeva depredare. Plinio non indica un luogo ideale per la fruizione dell’arte. Roma è comunque l’alternativa positiva di fronte al desiderio di possesso, che nella sua forma più sfrenata Plinio individua non più nei membri dell’oligarchia ma negli imperatori. Entro questa visione la domus aurea è un “carcere” per l’arte (NH 35.120). Ma anche la casa in sé, nella sua chiusura e immobilità, costituisce un limite per l’arte, e addirittura ne diminuisce l’intimo valore. Come abbiamo detto, Plinio usa spesso il termine gloria a significare l’eccellenza di singoli artisti (NH 34.67; 35.60; 35.61; 35.67; 35.68; 35.71; 35.80; 35.91; 35.112; 36.20; 36.31; 36.37; 37.8). Ma in riferimento alla casa la gloria cessa di legarsi al merito o al successo dei singoli per divenire elemento discriminatorio fra due categorie: ha gloria chi dipinge quadri, non ha gloria chi affresca le case (Plin. NH 35.118):

Sed nulla gloria artificum est nisi qui tabulas pinxere. Eo venerabilior antiquitatis prudentia ap- paret. Non enim parietes excolebant dominis tantum nec domos uno in loco mansuras, quae ex incendiis rapi non possent. Casa Protogenes contentus erat in hortulo suo; nulla in Apellis tectoriis pictura erat. Nondum libebat parietes totos tinguere; omnium eorum ars urbibus excubabat, pictorque res communis terrarum erat.

Ma in verità non c’è gloria se non per gli artisti che dipinsero quadri. Per questo tanto più ammirevole appare la saggezza degli antichi. Infatti non abbellivano le pareti soltanto per i padroni né case che sarebbero rimaste nello stesso luogo, quindi sottoposte alla distruzione per gli incendi. Protogene si contentava di una capanna nel suo orticello, sui muri della casa di Apelle non c’era pittura alcuna. Non era ancora di moda dipingere tutta la superficie delle pareti; l’attività artistica di tutti questi pittori era volta all’abbellimento della città e il pittore era considerato proprietà universale.

L’affermazione nulla gloria artificum est nisi qui tabulas pinxere rientra nella polemica contro il lusso e nel concomitante elogio dei tempi antichi. Ma soffermiamoci sull’affermazione che un tempo il pittore era “cosa comune di tutta la terra”: pictor res communis terrarum erat. Questa espressione, con l’apertura che comporta dal chiuso edificio fino all’intero mondo, ha un significato che trascende la polemica contro il lusso. Essa collega questo passo con altri passi dove Plinio indica un ideale di fruizione che concerne ancora le arti figurative, ma le concerne in connessione con la letteratura: che è il suo principale campo di interesse. La presenza nelle biblioteche di statue raffiguranti gli autori delle opere letterarie è elogiata senza riserve (cfr. Becatti 1956, 203; Gualandi 1982). A sua volta è elogiata la pubblica biblioteca: colui che per primo l’ha istituita in Roma ha fatto degli ingegni degli uomini una “cosa pubblica”: rem publica<m> fecit (con valorizzazione affine a quella degli antichi autori di tabulae: pictor res communis terrarum erat). Elogiata senza riserve è anche l’inserzione di imagines di uomini illustri nei libri (Plin. NH 35.9) :

Non est praetereundum et novicium inventum, siquidem non ex auro argentove, at certe ex aere in bibliothecis dicantur illis, quorum inmortales animae in locis iisdem locuntur, quin immo etiam quae non sunt finguntur, pariuntque desideria non traditos vultus, sicut in Homero evenit. Quo maius, ut equidem arbitror, nullum est felicitatis specimen quam semper omnes scire cupere, qualis fuerit aliquis. Asini Pollionis hoc Romae inventum, qui primus bibliothecam dicando ingenia hominum rem publica<m> fecit. An priores coeperint Alexandreae et Pergami reges, qui bibliothecas magno certamine instituere non facile dixerim. Imaginum amorem flagrasse quondam testes sunt Atticus ille Ciceronis edito de iis volumine, M. Varro benignissimo invento insertis voluminum suorum fecunditati <etia>m septingentorum inlustrium aliquo modo imaginibus, non passus intercidere figuras aut vetustatem aevi contra homines valere, inventor muneris etiam dis invidiosi, quando inmortalitatem non solum dedit, verum etiam in omnes terras misit, ut praesentes esse ubique c<eu> di possent.

Non si deve dimenticare neanche la nuova trovata di dedicare nelle biblioteche ritratti – se anche non in oro o argento, almeno di bronzo – di coloro le cui anime immortali parlano in quegli stessi luoghi; che anzi, vengono raffigurati anche ritratti immaginari e il nostro desiderio dà forma a volti non tramandati, come è avvenuto per Omero. Come io credo, non c’è nessun esempio di fortuna maggiore che quando tutti sempre desiderano sapere di quale aspetto uno fosse in vita. Questa fu un’innovazione a Roma di Asinio Pollione che per primo, dedicando una biblioteca, rese di dominio pubblico l’ingegno degli uomini. Se poi abbiano cominciato prima i re di Alessandria e di Pergamo, i quali in grande gara fondarono biblioteche, non potrei dirlo facilmente. Che l’amore per i ritratti dei grandi sia stato un tempo molto vivo, lo testimoniano quell’Attico amico di Cicerone con un volume su questo argomento e Marco Varrone con l’invenzione nobilissima di inserire in qualche modo nei suoi numerosi volumi anche i ritratti di settecento uomini illustri, non sopportando che le loro immagini si perdessero o che l’usura del tempo prevalesse sull’uomo: autore di un dono da fare invidia anche agli dèi dal momento che non solo conferì immortalità ai personaggi raffigurati ma li fece anche conoscere in tutto il mondo, perché potessero essere presenti ovunque come dèi.

L’inserzione delle imagines di uomini illustri nei libri ha per Plinio una duplice capacità: di far sopravvivere i tratti dei personaggi raffigurati (ciò che è proprio delle immagini) e di diffonderle (come avviene al libro). La comunanza fra le immagini dei grandi uomini e i libri ha dunque piena positività sia che l’immagine resti nel chiuso di un edificio che è una pubblica biblioteca, sia che essa trovi nel libro il contenitore che la diffonda. In questa visione, il libro è l’elemento forte. Ma vi è nelle imagines un elemento che le arricchisce: la loro partecipazione alla dimensione del desiderio e dell’illusorietà. I volti dei personaggi le cui reali fattezze non sono state tramandate, i volti dunque che non conosciamo, possiamo “fingerli”, lasciandoli generare dal nostro desiderio (quae non sunt finguntur, pariuntque desideria non traditos vultus). E coloro di cui si diffondono le immagini diventano presenti ovunque, come gli dèi: ubique c<eu> di (Citroni Marchetti 1991, 252-255).

Torniamo a Cicerone e Plinio. Plinio parla di acque benefiche per gli occhi che dopo la morte di Cicerone sgorgarono presso la sua villa chiamata Academia. In essa Cicerone si era edificato dei monumenti, come se (dice Plinio) non li avesse innalzati anche in tutto il mondo (Plin. NH 31.6):

Villa est ab Averno lacu Puteolos tendentibus inposita litori, celebrata porticu ac nemore, quam vocabat M. Cicero Academiam ab exemplo Athenarum, ibi compositis voluminibus eiusdem nominis, in qua et monumenta sibi instauraverat, ceu vero non et in toto terrarum orbe fecisset. Huius in parte prima exiguo post obitum ipsius Antistio Vetere possidente eruperunt fontes calidi perquam salubres oculis, celebrati carmine Laureae Tulli, qui fuit e libertis eius, ut protinus noscatur etiam ministeriorum haustus ex illa maiestate ingenii. Ponam enim ipsum carmen, <ut> ubique et non ibi tantum legi <queat>: “Quo tua, Romanae vindex clarissime linguae, / silva loco melius surgere iussa viret / atque Academiae celebratam nomine villam / nunc reparat cultu sub potiore Vetus, / hoc etiam apparent lymphae non ante repertae, / languida quae infuso lumina rore levant. / Nimirum locus ipse sui Ciceronis honori / hoc dedit, hac fontes cum patefecit ope, / ut, quoniam totum legitur sine fine per orbem, / sint plures oculis quae medeantur aquae”.

Venendo dal lago Averno a Pozzuoli si vede una villa costruita sulla spiaggia, famosa per il portico e il boschetto. Cicerone la chiamava “Accademia”, sull’esempio ateniese, lì compose i libri che portano quel titolo, e in essa si costruì dei monumenti, come non bastassero quelli che si era fatti nel mondo intero. Nella parte anteriore della villa, poco dopo la morte di Cicerone, quando ne era proprietario Antistio Vetere, sgorgarono delle fonti calde estremamente salutari per gli occhi, celebrate dalla poesia di Laurea Tullio, uno dei liberti di Cicerone. Si riconosce subito, anche se si tratta di un domestico, che ha preso ispirazione da quell’ingegno maestoso. Citerò infatti la poesia, perché possa essere letta ovunque e non soltanto là: “Sommo campion della romana lingua, / nel luogo ove verdeggia il tuo boschetto / che viene or fatto sorgere più bello / e Vetere con più magnificenza / restaura la tua villa, celebrata / pel nome d’Accademia, in quello stesso / linfe appaiono mai trovate prima / e d’infusa rugiada agli egri lumi / danno sollievo. Certo il luogo stesso / al suo Ciceron fe’ questo onore / quando le fonti in tale guisa apriva; / così, poiché vien senza pausa letto / per tutto l’orbe, saran più copiose / l’acque, per gli occhi stanchi medicina”.

Se torniamo ai passi di Cicerone che abbiamo inizialmente citato, vediamo che egli usava in riferimento a sé i medesimi termini che qui usa Plinio: omni genere monumentorum meorum (Phil. 2.20); omnia quae gerebam […] spargere me […] arbitrabar in orbis terrae memoriam (Arch. 30.8). I monumenta possono essere di volta in volta l’oggetto che raffigura le fattezze o lo scritto in cui si esprime un autore; a diffondersi nel mondo possono essere le gesta compiute o le opere scritte (cf. Plin. NH 13.21: monumenta in riferimento agli scritti di Cicerone). Nell’universo concettuale e affettivo di Plinio, che raccoglie un’eredità ciceroniana, i dati sono in buona misura intercambiabili: c’è ampia coincidenza fra azione gloriosa, opera scritta, immagine raffigurata. Rispetto a Cicerone c’è in Plinio una maggiore valorizzazione dell’immagine. Ma è in base alla riconosciuta solidarietà esistente tra i termini (tra le gesta e la loro riproduzione attraverso lo scritto o l’immagine) che egli, dall’angolatura specifica della pittura, poteva dire che le “immagini dei corpi” vengono meno se non ci sono “immagini degli animi”.

Sulla villa di Cicerone, Plinio trovava scritti i versi celebrativi composti dal liberto Tullio Laurea. Anche in essi era espresso il concetto che le opere di Cicerone sono diffuse in tutto il mondo. In questo caso si tratta delle opere letterarie: Cicerone “è letto” in tutto il mondo (totum legitur sine fine per orbem). Noi conosciamo quei versi perché Plinio ha scelto di inserire il carme nel proprio libro affinché possa essere letto “ovunque e non solo lì”: ubique et non ibi tantum (ubique: come le immagini contenute nei libri, ubique ceu di). Plinio ha staccato il carme dalla villa: lo ha sottratto alla immobilità e deperibilità dell’edificio. Questa è la forza del libro. Le immagini dipinte sulle tabulae in parte la condividono.

 

§.3.Un universo di immagini

 

Se questo modello intellettuale, a cui ci è sembrato di poter riportare la Naturalis Historia, ha il suo elemento di forza nella parola scritta, possiamo però aggiungere che il testo pliniano stesso, nel suo aspetto letterario, stabilisce un legame con le arti figurative al di là del puro fatto di informare su esse. Lo fa attraverso il racconto. Se, come abbiamo detto, la Naturalis Historia nel suo insieme può essere considerata un’opera letteraria, tale da ammettere o anche da desiderare una lettura continuata, certamente hanno questo carattere i libri di storia dell’arte. Gli aneddoti che Plinio narra sugli artisti e le loro opere non sono una semplice aggiunta al testo fatta a scopo ornamentale ma appartengono costituzionalmente alla narrazione della storia dell’arte: è per intima aderenza all’argomento se proprio qui più che altrove l’informazione è accompagnata dal piacere del racconto (Rouveret 1995: l’aneddoto completa l’analisi tecnica “alla maniera di un ritratto”; Naas 2006, 2011, 2015: sull’integrazione fra aneddotica e discorso tecnico). Ma si possono indicare altre forme di vicinanza fra la Naturalis Historia e il mondo dell’arte. Al di là della credenza in una natura artifex riconoscibile nella bellezza del mondo, e più che mai nella perfezione delle creature più piccole (Lao 2008, 175-179), Plinio giunge a immaginare nel prodotto naturale la presenza della materia preziosa e dell’artificio che la lavora. Si veda la descrizione della pianta meravigliosa del litospermo (Plin. NH 27.98-99):

Inter omnes herbas lithospermo nihil est mirabilius […] gerit iuxta folia singulas veluti barbulas et in earum cacuminibus lapillos candore et rotunditate margaritarum […] nec quicquam inter herbas maiore equidem miraculo aspexi. Tantus est decor velut aurificum arte alternis inter folia candicantibus margaritis, tam exquisita difficultas lapidis ex herba nascentis.

Fra tutte le erbe nessuna è degna di ammirazione più del litospermo […] accanto alle foglie ha delle piccole barbe in cima alle quali stanno delle pietruzze che hanno il candore e la rotondità delle perle […] fra le erbe non ho visto niente di più prodigioso. Tanto grande è la sua bellezza come se per arte di orafi delle perle biancheggiassero tra una foglia e l’altra, così raffinata è la difficile opera della natura di far nascere una pietra da una pianta.

Le piccole barbe del litospermo appaiono quali “perle” che si alternano tra le foglie “come per arte di orafi”: l’oggetto naturale, cioè, è bello perché è simile a un oggetto di oreficeria (Citroni Marchetti 2011, 14-15).

E ancora: se il termine effigies ha in Plinio una presenza molto maggiore che in ogni altro autore latino, è perché il mondo della natura gli appare ricco di “immagini” che suggestivamente si rimandano l’una con l’altra (cfr. il frequente ricorrere, in riferimento alla natura, anche di altri termini caratteristici della trattazione dell’arte, quali figura, imago, similitudo, imitari). Cito un caso, che coincide con la prima volta in cui l’autore si fa presente nel testo. Qui Plinio riporta una sua testimonianza visiva (Plin. NH 2.101):

Existunt stellae et in mari terrisque. Vidi nocturnis militum vigiliis inhaerere pilis pro vallo fulgorem effigie ea; et antemnis navigantium aliisque navium partibus ceu vocali quodam sono insistunt, ut volucres sedem ex sede mutantes.

Appaiono stelle anche in mare e in terra. Io ho visto di notte nei turni di veglia dei soldati attaccarsi ai giavellotti, davanti alle palizzate, un fulgore di tale immagine; e si posano anche sulle antenne e su altre parti delle navi con un suono come di voce, come uccelli che mutano sede da sede.

Questa scena, o per meglio dire questo quadro, contiene (per noi che lo leggiamo) anche l’immagine dell’autore, presente come soldato, che vede le stelle (le “immagini” delle stelle) riprodursi in ambiti diversi, in una assimilazione di luci, voci, voli di uccelli.

Infine, se la rappresentazione della vita umana ha un’ampia parte nel corso della Naturalis Historia essa è però anche limitata e inibita dagli intenti didattici e morali. Nella storia dell’arte questa inibizione viene in parte superata attraverso la descrizione delle opere. Forme della emotività, aspetti leggeri della vita quotidiana, manifestazioni della bellezza femminile entrano nel testo non direttamente ma in quanto riflesso dell’imitazione che ne avevano fatto le opere d’arte. Faccio un esempio riguardante la figura femminile, e ancora in connessione con la testi- monianza visiva dell’autore. Nel corso dell’opera, due volte Plinio dice “ho visto” riferendosi a un corpo di donna: Paolina coperta di pietre preziose, Messalina con un mantello d’oro:

NH 9.117: Lolliam Paulinam […] vidi smaragdis margaritisque opertam

NH 30.63: nos vidimus Agrippinam […] indutam paludamento aureo

Il corpo della donna è coperto da materiali preziosi: è un simbolo della ricchezza e del potere, quelle categorie che Plinio condanna in base alla sua concezione morale. Nella trattazione della pittura, quando Plinio esprime la sua ammirazione per i dipinti di Ardea e Lanuvio, riferendosi in particolare alla raffigurazione di Atalanta ed Elena, il suo sguardo si sofferma sulla bellezza dei loro corpi nudi e anche ne valuta l’espressività (Plin. NH 35.17):

Exstant certe hodieque antiquiores urbe picturae Ardeae in aedibus sacris, quibus equidem nullas aeque miror […] similiter Lanuvi, ubi Atalante et Helena comminus pictae sunt nudae ab eodem artifice, utraque excellentissima forma, sed altera ut virgo.

Esistono, è vero, ancora oggi pitture anteriori alla fondazione di Roma a Ardea, in alcuni templi, pitture che certo ammiro come nessun’altra […]. Similmente a Lanuvio, dove Atalanta e Elena sono state raffigurate una presso l’altra nude dallo stesso artista, ambedue di perfetta bellezza, ma una è rappresentata come una vergine.

E ancora: Plinio mostra di avere una conoscenza diretta delle pitture parietali di Studius, che rappresentavano i paesaggi ameni intorno alle ville e la gente che li animava con occupazioni quotidiane e anche li animava di scherzi: scherzi fra uomini e donne, con gli uomini che per gioco portano in spalla le donne e queste che hanno paura di cadere (Plin. NH 35.116-117):

Non fraudand<a> et Studio divi Augusti aetate, qui primus instituit amoenissimam parietum picturam, villas et porticus ac topiaria opera, lucos, nemora, colles, piscinas, euripos, amnes, litora, qualia quis optaret, varias ibi obambulantium species aut navigantium terraque villas adeuntium asellis aut vehiculis, iam piscantes, aucupantes aut venantes aut etiam vindemiantes. Sunt in eius exemplaribus nobiles palustri accessu villae, succollatis sponsione mulieribus labantes, trepidis quae feruntur, plurimae praeterea tales argutiae facetissimi salis.

Ma non bisogna neanche togliere all’età di Augusto i meriti di Studio, il primo a mettere in voga un genere piacevolissimo di pittura parietale, con ville, portici, giardini, boschetti, foreste, colline, laghetti artificiali, canali, fiumi, spiagge, insomma i paesaggi di sogno nei quali si vorrebbe vivere, ai quali aggiungeva varie figure di gente che passeggia, o di naviganti, o di gente che si reca alle ville per via di terra, su asinelli o su carrozze; e poi ancora scene di pesca, di uccellagione, di caccia o anche di vendemmia. Tra i suoi motivi vi sono splendide ville cui si accede attraverso paludi, uomini che per scommessa si sono caricati delle donne sulle spalle e che vacillano, mentre le donne a cavalcioni tremano, e tante altre scene buffe di tal genere, molto spiritose.

È pittura realistica, e Plinio la apprezza. Ma egli non descrive mai in modo diretto questa “realtà”, questa quotidianità serena e disinvolta. E se essa trova la sua via entro la Naturalis Historia è, come abbiamo detto, attraverso l’imitazione che ne ha fatto la pittura.

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